Era il 1989. Il look sempre lo stesso, quasi di ordinanza: jeans, giubbotto jeans e, sotto, quella camicia con il colletto ricamato che mi dipingeva come la brava bimba col sorriso, furbetto ma innocente e che esprimeva tutta la fanciullesca purezza di una quattordicenne. Fu la prima volta in assoluto in cui potei avventurarmi nei mitici box della Formula 1 da sola, insieme ai miei amici anziché mio padre. Mi sentivo grande, con Jacopo e Matteo. Non sapevo, lì seduta sullo scooter di uno dei miei piloti preferiti, che con loro avrei condiviso negli anni a venire tante e tante avventure su quell’asfalto. Sapevo però già che lì stavo bene, che non avrei voluto altro che tenermi al collo quel pass per sempre e che per me quel giorno non sarebbe mai dovuto finire.

Il motorino era di Nelson Piquet, brasiliano come Ayrton. Tre mondiali vinti, come Ayrton, Nelson è sempre stato, oltre che un fuoriclasse, anche molto simpatico. Forse era proprio questo che mi piaceva di lui. Assomigliava un po’ a mio papà. Faceva scherzi agli altri piloti ed era sempre pronto alle battute. Non esprimeva la saudade di Ayrton, almeno davanti alle telecamere. Nelson era andato in Lotus dopo aver vinto il campionato del mondo del 1987. Senna aveva lasciato la Lotus ed era approdato in McLaren. Un incrocio di auto e di campionati del mondo: Ayrton riuscì a far rimanere il titolo in brasile nel 1988. Quell’anno raccontato nella foto, fu invece quello delle epiche battaglie con Prost, che divenne campione del mondo 1989 innescando tutto ciò che poi è diventata storia tra lui e Senna nei pochi anni che lo separarono dal Tamburello.

All’epoca era tutto molto più semplice: i piloti in attesa di scendere in pista potevi trovarli in giro per il paddock o in tende posizionate davanti ai motorhome, o nei motorhome stessi certo, decisamente meno lussuosi di oggi. Il nostro obiettivo, in quelle passeggiate su e giù per quel corridoio tra i camion, era di incontrarli e farsi fare l’autografo, magari sul pass. Così da portare a casa un ricordo, un piccolo trofeo di giornate indimenticabili.

Era tutto più semplice: un pass di carta, senza nessun nome, un cordino. Molto spesso, per noi, era semplicemente un cordino. Senza pass. Eh sì perché tra amici c’era chi riusciva a farsi dare un pass vero e proprio e chi invece aspettava sul ponte di Viale Dante, che qualcuno uscisse a fare lo scambio pass. Entriamo in due, poi io esco con il tuo pass e faccio entrare un altro. Però come facciamo se qualcuno mi vede giare senza niente al collo? Nessun problema, prendiamo un altro cordino da casa e, come nella foto, lo infiliamo sotto la giacca a far sembrare tutto in regola. Spesso, quindi, al cordino non c’era attaccato proprio nulla. Ma così noi entravamo tutti, felici di poter essere insieme in quel luogo magico: amici che si scambiano autografi e scattano istantanee che non sanno come verranno, fino alla riconsegna delle foto dopo lo sviluppo del rullino. Amici che hanno condiviso quella passione che a Imola ti faceva saltare persino la scuola, con genitori accondiscendenti, anzi spesso a pochi metri di distanza da te, a gioire di quella presenza così affascinante come solo la Formula 1 sapeva essere.

Quel mio sorriso, sullo scooter di Piquet, racconta di una bambina che prendeva coscienza, giorno dopo giorno, che quel mondo, quei suoni e quella fotografie sarebbero stata la cornice della sua vita.