Siamo nel 1999, ormai ho deciso: voglio fare la giornalista. Non esistono i social, non ci sono strade più facili di altre o almeno non credevo esistessero finché non mi sono scontrata con quello che mi ha poi portata a scontrarmi con una realtà per me impossibile da accettare. Ma partiamo dall’inizio.
Lavoravo alla redazione di Imola de Il Resto del Carlino da un po’ e, ovviamente, seguivo lo sport e in particolare l’attività dell’Autodromo. In contemporanea continuavo con la F1 in sala stampa ma avevo deciso che la mia strada in quel momento era indirizzata verso le due ruote. Conoscevo tanti giornalisti, ho avuto modo di partecipare quell’anno al GP di Mugello, Brno, Valencia e in mezzo, il GP di Imola. Fu l’ultimo anno del Motomondiale in città e io ero inviata del giornale locale. Dopo 10 anni ero io che mi sedevo nella postazione da giornalista in sala stampa, non più con la divisa dello staff, ma con il mio pass media al collo.
Ero felice, stavo costruendo relazioni importanti, con le squadre, con i piloti e con tutto il mondo delle moto che cominciava a piacermi un sacco. Tanto che fui invitata, io e non altri per la mia testata, a casa di Loris Capirossi. Una piccola partentesi: conoscevo Loris da quando avevo 13 anni, aveva una morosina a Imola ed era una mia amica. Non so perché, tra le tante cose che ho dimenticato del passato, ho un vivido ricordo di un pomeriggio, all’entrata del parco delle Acque Minerali: Loris arrivò, con la sua vespa, direttamente da Borgo Rivola, ci salutò, a lei diede un timido bacino sulle labbra. Noi due eravamo in bicicletta, e prima di lasciarli soli per una passeggiata nel parco, chiacchierammo e ci raccontò che quell’anno avrebbe fatto l’Europeo. Io lo guardavo e mi chiedevo come facesse un ragazzino così esile ad essere forte in moto, ma il tempo poi me lo ha spiegato bene e diventai subito sua tifosa.
Comunque, dicevo che andai a casa di Loris, con un invito arrivato per telefono direttamente da sua madre. Nessuno sapeva perché andavamo là ma lo capimmo ben presto. Loris fece un annuncio a sorpresa: avrebbe fatto causa all’Aprilia chiedendo 9 miliardi di lire per non aver onorato il contratto e per danni di immagine (dopo un fattaccio in pista che causò il licenziamento anzitempo di Loris dalla casa di Noale). Wow, notizia bomba. Da prima pagina. E chi era lì ad ascoltare le dichiarazioni di Loris, a fargli domande e a prendere appunti? Io. Era la mia occasione.
Corsi in Autodromo, telefonai alla redazione di Bologna e raccontai tutto. Intanto mi misi a scrivere, perché in ogni caso sapevo che sarebbe stato l’articolo della giornata, anche se pensavo potesse essere inserito nelle pagine di sport locali. Passa poco tempo e arriva l’altro giornalista inviato della stessa testata, ma per il nazionale. Peccato che lui non fosse stato invitato a casa di Loris e, faccia tosta mi disse: dammi tutte le informazioni che hai perché devo scrivere il pezzo per il nazionale.
Immaginate la mia faccia, ok. Ma risposti subito: no. Quel pezzo lo scrivo io. E’ mio, me lo sono guadagnata. Comincio a telefonare compulsivamente a tutti quelli che conoscevo, arrivando a far sentire la mia voce e le mie ragioni. Con il malcontento di qualcuno che non me la mandò a dire, il pezzo lo scrissi io.
Inviai, con la modalità dei vecchi modem a disposizione all’epoca, l’articolo dal mio portatile e uscii dal Circuito. Quella sera ero su di giri: il giorno dopo avrei trovato il mio articolo, la mia firma, il mio nome sulla prima pagina del nazionale, che all’epoca usciva con un inserto tutto dedicato allo Sport ad accompagnare le edizioni di tutta Italia.
Ma, come nei migliori film drammatici, ecco il colpo di scena: ricevetti una telefonata dall’altro. Ti ho ‘fatto un favore’, ti ho ‘permesso di arrivare alla prima pagina di un quotidiano’, se non c’ero io ‘non avresti scritto quel pezzo’. E, rimbombarono per anni nella mia testa, le parole più difficili da accettare: ‘lo sai vero che cosa devi fare per ringraziarmi, vero?’. E no, non lo disse con tono ironico o scherzoso, anzi proponendomi una cena per la settimana successiva.
Una doccia gelata sarebbe stata meno scioccante. Io, quella genuina, che non si sarebbe mai piegata al ricatto, tantopiù di natura non professionale, eccomi ad incassare un pugno nello stomaco. Volete chiamarla molestia? Oggi come oggi avrei potuto denunciare, ma allora sarebbe servito a poco: la sua parola contro la mia. Non c’era la coscienza e la conoscenza che c’è adesso su questi argomenti. Lì mi sentivo solo sola e impaurita. Fu in quel preciso istante che capii come sarebbe stata difficile la scelta di proseguire nel mio cammino di futura giornalista.

L’articolo uscì e mentre scrivo, anche ora, è appeso al muro di fianco a me, per ricordarmi di cosa non è stato, di cosa sono stata capace con le mie sole forze e di come, da quel momento in poi, non uscì più nulla firmato da me sulle pagine del Nazionale. Quella cena, ovviamente, non ci fu mai.
Per la cronaca, continuai a scrivere per la redazione locale, tenendomi ben lontana da ulteriori ricatti, e, anche a costo di scrivere trafiletti di cronaca nera o rimanere in redazione ad aspettare lo spoglio di schede elettorali fino a tarda sera non retribuita, dovevo e volevo arrivare in fondo a quella strada, per dare un senso a quello che avevo fatto fino ad allora. Il direttore della pagina di Imola riconosceva le mia capacità e tante volte mi ha premiata con articoli importanti e interviste da prima pagina. Così a inizio del 2000 presentai tutta la documentazione per iscrivermi all’Albo dei Giornalisti. Tutto il resto fu un’altra storia, ma ben lontana da Il Resto del Carlino.