Guardavo mia sorella vestirsi, un tailleur grigio super elegante e firmato. Quel fine settimana avrebbe lavorato come hostess per uno sponsor della Formula 1. Le salette al primo piano del corpo box erano un sogno, oltre quelle porte di ferro c’erano tavoli imbanditi, champagne e le vetrate direttamente sulla pit lane. Oggi, se ci fossero ancora, quelle salette assomiglierebbero agli spazi di una vecchia officina, allora erano lusso ed esclusività. In quegli anni io potevo solo sbirciare, passando davanti mentre attraversavo il corridoio. Mentre lei, mia sorella era stata chiamata per lavorare. Cioè, voglio dire, vai in un posto da sogno e ti pagano pure? I miei occhi erano però quelli di una bambina, che a 14 anni non avrebbe potuto essere chiamata come hostess. Così sognavo un giorno di poter fare quello che stava facendo lei. Mia sorella, così diversa da me, per nulla attratta dal mondo dell’Autodromo. Non è giusto, lei può e io no.

Passa un anno e mia sorella viene chiamata di nuovo; questa volta per il Paddock Club, l’area vip che accoglieva le aziende e gli ospiti più importanti del Gran Premio. E ancora una volta io a casa, o meglio: in giro per l’Autodromo, fra tribune e giretti clandestini nel paddock a godermi comunque quell’aria magica che avvolgeva Imola a primavera, quando arrivava la settimana della gara. Aspettavo il mio turno, prima o poi sarei cresciuta.

Inaspettatamente la chiamata fu solo l’anno dopo: 16 anni ed eccomi, con la mia divisa blu, la camicia bianca con ricamato sopra quel nome. Paddock Club. Beh, se devo proprio ammetterlo, la divisa mi piaceva poco. Sembravo una scolaretta di un college inglese più che una hostess. Ma era meglio così: nessuna provocazione, tutto molto serio e rigoroso, incarico con compiti precisi e un briefing di due ore che mi fece sentire grande ed importante. Era il mio primo vero lavoretto. Il compito era facile: dovevamo stare per gran parte del tempo nella casetta dello shop, posizionata all’ingesso dell’area, per vendere il merchandising griffato Paddock Club. La Formula 1 negli anni ’90 fece il salto di qualità e mise le basi di quella che è diventata oggi: hospitality di alto livello, marketing di prodotto, partnership importanti. Dopo 30 anni esiste ancora il Paddock Club e questo non è un caso.

Dal mio diario, 29 aprile 1991 “Il paddock club è troppo bello…anche per i ragazzi che ci sono. Domenica è stato il giorno decisamente più bello. Quando io e mia sorella abbiamo finito di lavorare (ci hanno dato 270.000 lire) siamo andate su negli uffici a mangiare e bere con tutti quelli del controllo. Ho conosciuto dei ragazzi troppo simpatici”

In quell’anno Stefano Domenicali, che è stato per tanti anni uno dei ragazzi del controllo, entrava in Ferrari. Di certo so che molti di coloro che ho conosciuto in quel periodo, lavorano ancora nell’ambiente delle corse. Perché quando ci entri, e ti piace, è difficile uscirne.

Continuai a lavorare al Paddock Club anche negli anni a venire: più cresceva il livello, più chiedevano hostess e ormai ero diventata per l’organizzazione il punto di riferimento per Imola. Erano svizzeri ma sempre sotto il controllo di Ecclestone. Gli piacevo perché parlavo bene il francese, la loro lingua. Mia sorella si stancò subito e già dal 1992 chiamai al posto suo le mie amiche. Prima una poi due poi cinque-sei. Non c’era solo lo shop, ma divenne una vera e propria attività di accoglienza per gli ospiti. Andò avanti così fino al 1996, sempre le stesse divise blu da scolarette, con giacche che ci facevano ribrezzo solo a guardarle, ma che ci davano quell’aura di esclusività che bastava a farci sentire speciali per tre giorni, dimenticando la scuola, i compiti in classe, i drammi d’amore dei 16 anni, le liti coi genitori, la monotonia delle giornate a Imola senza F1.