La fortuna è avere lo scatto giusto. Quello che immortala il momento esatto in cui mi sono innamorata della pista, dei suoni, delle voci, dei movimenti, dei colori, dei luoghi. Questo è il momento esatto in cui ho percepito, nell’aura di bambina inconsapevole, che l’Autodromo di Imola avrebbe accompagnato la mia vita. E così è stato.
Dietro la macchina fotografica, l’amore del mio papà. Un pomeriggio insieme ai box per le prove libere di Formula 1. Parliamo della fine degli anni 80 e di piloti come Piquet, Mansell, Alboreto, Prost. Un mondo che non c’è più ma che non se ne andrà mai dalla memoria, anche di chi non c’era e che può solo sognarlo dalle foto e dai documenti video sgranati e poco nitidi, ma anche per questo affascinanti e pieni di grande passione. Come tutte le grandi passioni, questi documenti portano con sé attimi di eternità. Sicuramente il ricordo è dentro di me come pochi altri: un momento di felicità e di spensieratezza e nel contempo l’attimo impercettibile in cui ho capito che amavo visceralmente le auto, le corse, la velocità, l’odore inebriante della benzina e degli pneumatici. Amavo il brivido e il carpe diem. Nella realtà ero convinta, in quel preciso istante, che quella sarebbe stata un’eccezione e che quella foto al muretto avrebbe suggellato un’esperienza irripetibile. Mi sbagliavo e non di poco, ma ero già quella che sono ora: avrei continuato a pensare che si deve vivere ogni esperienza al massimo, per il presente. Carpe diem.
Quel giorno stavo vivendo, di emozioni da bambina: l’autografo, la foto con il pilota, il rombo della Formula 1 che ti sfreccia vicino. Il muretto box rappresenta un limite, tra correre e guardare correre. Tra decidere di indossare un casco e sfidare la velocità, le curve e gli imprevisti e fermarsi invece a osservare, fotografare la vita che scorre a 200km/h. Carpe diem.
Guardo la foto e ascolto nitidamente il mio cuore battere forte per quella Ferrari che si avvia verso un altro giro di quel meraviglioso circuito. L’emozione per la velocità e per quei suoni non se n’è mai più andata e ancor oggi, al muretto box, qualunque auto stia uscendo o rientrando in pit lane, sento gli stessi brividi e so di essere fortunata, perché sono dove volevo essere da bambina, ora e ancora.
Tutto è cambiato: quel muretto così pericoloso per fortuna è sostituito da uno con vetri e paratie. Sono cambiati i box, gli sponsor. Ma tutto è uguale: la torre, la tribuna centrale. Mi fa sorridere rivedermi nel mio giubbotto jeans di due taglie più grande, perché poi crescerai. Mi fa tenerezza guardarmi con la mia coda di cavallo, con la frangetta, con in mano il mio quaderno degli autografi. Per l’emozione, in un attimo di distrazione, la penna bic rotolò inesorabilmente oltre il muretto e cadde sull’asfalto della pista. Mio padre non l’avrebbe mai lasciata lì, ma doveva trovare il modo di recuperarla senza dare troppo nell’occhio. Aspettò che tutte le auto fossero rientrate ai box e mi prese per i piedi, mi calò a testa in giù: una scena comica, per me tragica. Ma che oggi ritrovo come uno degli insegnamenti di quel papà che mi ha sempre tenuta stretta, che mi ha dato fiducia e del quale mi potevo fidare in ogni caso: nella vita se vuoi puoi e un modo lo si trova sempre. Ecco, è tutta lì la verità: quella bambina ha saputo sognare grazie al suo papà. E ora che lui è in ogni luogo, so che più di altri sa che io sono dove ero quel giorno, a immaginare di correre a 200 chilometri all’ora, rincorrendo quel brivido che c’è tra il muretto e la pista, tra vivere e guardare la vita.