Tra Formula 1 e Motomondiale c’è sempre stata differenza, fino ai primi anni 2000: chiunque poteva accorgersene, anche solo facendo un giretto nel paddock. Gli interessi economici erano ben diversi, le modalità di approccio coi circuiti pure. Da un lato la Gran Bretagna di Bernie Ecclestone, chiuso nei suoi motorhome e presenza costante ma inarrivabile, dall’altro Carmelo Espeleta, con tutto il suo frizzante schieramento spagnolo. Bernie non lo avresti avvicinato mai, circondato dai suoi fedeli e dal suo entourage. Ricordo invece una sera, a cena con Carmelo, Angel Nieto e altre persone al San Domenico. Era facile parlare, conoscere, chiacchierare e persino cenare con coloro che stavano gestendo il Circus delle moto.

Ben diverso da quell’ambiente di esclusività della Formula 1. Briatore all’epoca faceva già cene a lume di candela nel suo Motorhome, che ovviamente era il più bello e pomposo. Rispetto a quelli che vediamo oggi ben poca cosa, ma per l’epoca era rivoluzionario. La differenza con le squadre minori era ben chiara: da un lato l’hospitality di Minardi, dove si mangiava romagnolo e tutti accorrevano per stare in un ambiente familiare, dall’altro champagne e tavolate con modelle e vip di Flavio.

Credo che, come Ecclestone, anche Briatore, oltre ad aver portato ad alti livelli squadre e piloti che hanno fatto la storia della Formula 1, abbia avuto l’ottima intuizione di accelerare un processo importante, che ha poi reso l’ambiente delle gare un vero circuito di business, dove creare relazioni e interessi distanti da quello che succede in pista. Se ti porto nel paddock vuol dire che conti qualcosa. Se sei lì e puoi farti vedere allora sei un personaggio importante. Si era creato un ambiente sempre più esclusivo, dove per entrare occorrevano credenziali personalizzate: in quegli anni nasce il pass a mo’ di badge, vengono costruiti i tornelli, dove mostrare alla security il tagliando plastificato che non solo porta il tuo nome ma ha anche la foto di riconoscimento. E’ un passaggio importante: chi ha al collo quel pass è una persona VIP. Così Ecclestone e i suoi, che gestivano la distribuzione e la realizzazione in loco dei lasciapassare, avevano il potere di decidere chi far entrare e chi no. Chi autorizzare a dire ‘io posso entrare nel paddock di Formula 1’ , quasi fosse una medaglia.

E poi c’eravamo noi, tutti i fortunati che quel pass lo avevamo per lavorare. Il passaggio successivo, dopo i tornelli e le foto identificative, fu quello di diversificare i pass: chi lavorava era diverso da chi era lì ospite. Chi poteva andare il pit lane aveva un pass più bello. Insomma, la psicologia dei pass veniva studiata nei minimi particolari, anche per dare sempre più importanza alle relazioni e alla possibilità di decidere la gerarchia delle persone presenti in base al pass. La modalità si è poi radicalizzata e diffusa oggi anche al Motomondiale: la distribuzione delle credenziali per accedere al paddock di F1 o di MotoGP segue dinamiche di marketing ben precise e coordinate tra organizzazione e squadre.

In ogni caso, la dicotomia tra Motomondiale e Formula 1 era, e forse è ancora, tangibile in tanti aspetti. Anche il modo di lavorare in sala stampa era diverso. Coi giornalisti di Formula 1 si lavorava per loro e poco altro, esclusa una cena per i pochi rimasti della domenica sera, come i brasiliani che partivano sempre il lunedì, organizzata da Gianni Berti e allietata dalle risate di noi ragazzi della sala stampa. Con quelli del Motomondiale ricordo con affetto le feste nel paddock, coi giornalisti che suonano la chitarra, che cantano davanti a piloti divertiti e noi ancora di più. Ma questa è un’altra storia.